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Mito e Tradizioni

Miti, arte, tradizioni e prodotti tipici

Il Ratto di Proserpina

Il mito dell'origine delle stagioni

Il lago di Pergusa rappresenta un ambiente di notevole interesse naturalistico che ha stimolato, fin dalle epoche più remote, la fantasia di scrittori d’ogni tempo: da Claudiano, Ovidio, Cicerone, Livio e Diodoro Siculo al poeta inglese John Milton e molti altri. Nel mondo classico fu celebrato da alcuni di loro “Il ratto di Proserpina”, uno degli episodi mitologici più affascinanti, che a Pergusa si sarebbe svolto nella notte dei tempi.

La leggenda narra di Proserpina, figlia di Cerere, che, mentre raccoglieva fiori nei pressi del Lago, fu rapita dal dio degli Inferi, Plutone, e fatta sua sposa. Cerere la cercò in lungo e largo per nove giorni; la dea della Fertilità trascurò così il suo dovere e le messi cominciarono a venir meno.
Il decimo giorno,Giove, preoccupato per la carestia cui poteva essere soggetto il genere umano, fece svelare a Cerere il luogo dove l’amata figlia era stata violentemente trascinata; inoltre, in seguito alle disperate suppliche della madre, il padre degli dei acconsentì che madre e figlia potessero vivere insieme, ma solo per un periodo dell’anno (secondo il mito omerico, Proserpina ritornava sulla terra, al fianco della madre, per sei mesi l’anno, mentre per i restanti sei tornava nell’Ade assieme al marito; il mito orfico, invece, ci racconta di quattro mesi trascorsi nel regno dei morti e di otto nel regno dei vivi).

Cerere accettò la decisione, ma anche lei emanò una sentenza: quando il suo sguardo fosse stato lontano dall’amata figlia, il sorriso avesse abbandonato le sue labbra e la tristezza riempito il suo cuore, allora la stessa sorte sarebbe toccata alla terra, dando così origine all’autunno ed all’inverno; col ritorno di Proserpina, invece, anche la terra avrebbe esultato della sua presenza, la vegetazione e la fertilità sarebbero riapparsi, sarebbero sbocciati così i fiori, gli uccelli sarebbero tornati ai loro nidi, gli alberi avrebbero dato i loro frutti e gli uomini avrebbero giovato di tale ricchezza, dando origine, in tal modo, alla primavera ed all’estate.





    Il Ratto di Proserpina (di G. Prestipino)

    La scultura in bronzo “Il Ratto di Proserpina” è stata realizzata dallo scultore ennese Gesualdo Prestipino nel 2004 per conto della Provincia Regionale di Enna.

    IL RATTO DI PROSERPINA PER PRESTIPINO

    Da un punto nella terra, da un foro, sale un turbine che cresce. Da una fenditura del tempo irrompe la forza originaria del mito, l’attimo rapinoso che fonde in uno l’uomo-dio, i cavalli, la fanciulla. Epifania di un istante, appena concreta e subito pronta a dileguarsi in cielo. Senza sciogliersi in racconto, né diminuire. Pura energia di un vortice d’aria ascensionale che, solidificato, simula corpi. La forma è cava e ancora una volta – cifra di un’originalissima dialettica astratto/concreto – costruita per fasce nascenti l’una dall’altra, capaci di evocare potentemente le figure senza descriverle, la natura senza imitarla. Linee di forza robuste, mai decorative, generatrici – sotto lo sguardo di chi osserva – di spazio e significato. Un “unicum” che agglutina le figure tra loro, il tempo e la materia. Persino l’aria del luogo che si incunea fra i vuoti, con occhi di foglie verdi, di cielo e acqua. La struttura è circolare. Ma per curve eccentriche, ellissi e spirali.

    La composizione, ascendente. Moto avvitato e tensione verso l’alto non estranei alla lezione del costruttivismo russo. Forme dinamiche e geometrie del curvo che non possono prescindere dai futuristi e da Boccioni. Lui, Plutone, la testa coronata del dio al centro. Motore possente dell’azione, incarna il movimento e lo orienta, attraverso la torsione michelangiolesca del suo corpo. Dal basso, saldamente divaricato, verso sinistra e verso l’alto, reggendosi al cavallo con un braccio, con l’altro sollevando di peso da terra la fanciulla. Volitivo e fulminante il gesto maschile che afferra. Impetuoso il desiderio che sale. Di qua, Proserpina, il desiderio divergente. L’abbandono e il vuoto. Resistenza e gravità di materia verso il basso. E allo stesso tempo curva convessa che si gonfia avanti e si oppone. In controcampo, un infittirsi veloce e minuto delle fasce, allusivo a lunghi capelli di giovinetta, ne umanizza la vicenda. Il richiamo, in diagonale, delle analoghe criniere avvicina di là, col vibrare della luce, il confine estremo dove, alti, si duplicano i cavalli del carro, bloccando come due colonne nell’eternità del mito la dinamica violenta del presente. Se non fosse per l’espressionistica, diversa tensione delle teste che prolunga all’infinito la spirale. Tutto si da nella rapidità fulminea dell’apparizione. Si stringe lo spazio, compenetrati i piani e le figure. E’ un attimo. Puntuale ed infinito, duale e unitario al tempo stesso: il maschile e il femminile, Cerere e Plutone, l’amore e la violenza, il buio e la luce, la vita e la morte, il mito e la natura, il tempo e l’eternità…

    Aquante (A. Cacciato)

    A Q U A N T E di Alberto Cacciato
    (intervento in marmo bianco carrara per Provincia Regionale di Enna)

    L’acqua è tema del monolite in marmo:
    lo contiene come reliquia il mistero irrefluente dell’enigma.
    Se vi fosse scienza del costruire acqua o parazione per sgelo di liquide linfe da comuni corpi compatti ciò avrebbe, per conseguenza di stimolo verbale, l’attrazione dell’infinito AQUARE.
    Il modo di procedere, d’incitare cioè, essa acqua a discendere per arie di umidi fervori – chiave sommessa d’invoco a soccorso – porterebbe all’utilizzo aggettivale d’un categorico quanto apotropaico AQUANTE.
    E tale è, da ciò che permea per scarto d’umani afflati, senni o fatti,
    AQUANTE
    spinta verticale di materia bianca, conturbante, attribuita, più che all’auspicio di piogge, comparative di degne lagune – ch’è d’inincresposa natura – al dolo vessante, invece, che ne proviene da violate virtuosità naturali;
    al rispetto, induce AQUANTE, al rigore di senno, al ritorno da foschie antropiche accumulate e accelerate nel ventre d’una catastrofe incombente.
    Due gli aspetti contenuti:
    la irruenza e la mitezza dell’acqua:
    L’una è nel verso, ed è del modo di espandersi dell’acqua a contatto col suolo: luoghi disegna, confini e forme neo-metriche; esonda e inonda ma ……… pur si offre e dona

    vita si fà
    si fà
    scrittura si fà
    si fà
    narrante e donata


    specchio riflorescente d’universo altrimenti naufrago fra curve di deserto; l’altra nel recto s’è, e si rappresenta con la fluenza verticale di segni tremuli: modulano l’aria tessendola, AQUATICAMENTE, di velate prospettive e scoperte, cosmiche liberazioni.

     

    La festa di Pergusa

     "U Signuruzzu do Lacu"

    La festa del “U Signuruzzu du Lacu” ebbe inizio nel 1937 per iniziativa degli abitanti del villaggio Pergusa, detti Lacari; fu istituita una Commissione, i cui membri si occuparono dell’organizzazione della festa. 
    In origine, la festa si teneva il primo maggio e i preparativi iniziavano un mese prima. Alcuni membri della Commissione andavano casa per casa chiedendo delle donazioni consistenti in frumento, fave, agnelli, galline, uova e altro, per la realizzazione della festa; questi beni venivano venduti per ricavarne del denaro utilizzato per i premi da consegnare ai vincitori di giochi e gare che si svolgevano durante la festa. Una piccola parte dei beni veniva conservata per addobbare l’antinna (un palo cosparso di cera alla cui cima venivano messi i premi che i partecipanti al gioco dovevano raggiungere arrampicandovisi). La sera prima della festa dei gruppi folcloristici locali si esibivano in spettacoli. 

    Il giorno della festa il Crocifisso, una croce realizzata da qualche artigiano del posto, veniva addobbato con fiori di violaciocca (valicu) e dopo la celebrazione della Messa, venivano lanciati in aria centinaia di palloncini colorati. Il pranzo era caratterizzato dal mazzamurru friutu (un pesce che viveva nel lago) e da dolci tipici: panuzzi m’paparinati e pani di spagna abbattutu. Nel pomeriggio si svolgevano varie gare: mangiata di spaghetti, corsa dei sacchi, tiro alla fune, corsa degli asini, gara di barche a remi nel Lago, gara podistica, gioco della padedda mascarata, della rottura de pignati e dell’antinna.

    Al termine dei giochi, partiva la processione del Crocifisso: la croce veniva portata a spalla da alcuni abitanti di Pergusa dalla chiesa del SS. Crocifisso, attraverso la via Nazionale, fino alla Chiesa Degli Angeli, oggi diroccata e sconsacrata, dove si celebrava la Messa ed avveniva la benedizione degli abitanti del villaggio ed infine si tornava alla Chiesa del SS. Crocifisso. A conclusione della serata si teneva uno spettacolo di giochi pirotecnici ed uno spettacolo musicale. 

    Nel 1938 i Lacari decisero di raccogliere dei fondi per donare alla Chiesa un nuovo Crocifisso di pregevole fattura. Dopo qualche anno, il tragitto della processione fu modificato; infatti, la meta non fu più la Chiesa Degli Angeli, ormai abbandonata, ma le rive del Lago da dove il Crocifisso veniva trasportato, tramite una barca, al centro del Lago per la benedizione. 
    Nel 1973 il giorno della celebrazione della festa fu spostato dal primo maggio alla prima domenica di maggio. In quello stesso anno fu fondata la Confraternita del SS. Crocifisso dai Lacari, desiderosi di partecipare ai riti della Settimana Santa di Enna e di potere trasportare il Crocifisso vestiti con gli abiti della loro Confraternita. 

    L’abito della Confraternita del SS. Crocifisso è composto da un camice bianco con vistoso colletto e maniche svasate dagli orli gialli, da uno scapolare rosso lungo quanto il camice, da una fascia blu con risvolti a frange pendenti dal lato sinistro, da guanti bianchi, da pantalone, calze e scarpe di colore nero, da un cappuccio di linea conica rigida a punta di colore bianco o da un fez di colore bordeaux e da un crocifisso di bronzo battuto che pende dal collo con un cordoncino bianco. Questo abito che riproduce quelli usati dalle “Confradias” spagnole, si differenzia dagli abiti delle altre Confraternite ennesi per la mancanza del mantello. 
    Con il passare degli anni molti dei giochi che si svolgevano durante la festa non vengono più svolti. Inoltre, nei lunghi anni di crisi idrica del Lago, il Crocifisso non veniva più trasportato in barca per la tradizionale benedizione. Solo nel 2004, date le migliorate condizioni idriche del Lago, è stata ripresa la tradizionale benedizione della popolazione e del Lago dalla barca che adesso viene messa a disposizione dalla Provincia Regionale di Enna. 

    Dal 1980 la Confraternita del SS. Crocifisso durante la “Settimana Santa” organizza ogni “Mercoledì Santo” la rappresentazione “della passione e morte di Gesù Cristo”, in costumi tipici dell’epoca, che vede coinvolti i parrocchiani, i giovani, i Confrati oltre che attori di qualche compagnia teatrale. Per l’occasione vengono preparate delle suggestive scenografie (l’imponente podio del Sinedrio, il palazzo romano di Pilato, le colonne, l’umile dimora dell’ultima cena, l’altura delle tre croci) e la rappresentazione si svolge in parte davanti il piazzale della chiesa del SS. Crocifisso per poi procedere verso il Calvario che viene allestito dietro la tribuna dell’autodromo, dove si recita la parte più significativa della rappresentazione: la crocifissione. Il tutto è accompagnato da musiche a carattere religioso diffuse per le stradine del villaggio. 
















      I formaggi

       "U Piacentinu Ennese"

      Una leggenda vuole che Ruggero il Normanno, intorno all'anno 1090, preoccupato per la consorte Adelasia prostrata da una invincibile depressione, invitasse i casari del luogo a preparare un formaggio che avesse doti taumaturgiche. Da qui sarebbe nata l'idea di aggiungere al latte di pecora una manciata di "crocus sativus" (zafferano), spezie nota nell'antichità per le sue qualità antidepressive energizzanti. Al di là della leggenda, il Piacentinu è ricco di riferimenti storici che risalgono al IV secolo d.c., quando lo storico Gallo in una pubblicazione fa cenno all'aggiunta della zafferano al formaggio. Una attenta riflessione sul nome "piacentinu ennese" indurrebbe pensare che le sue origini risalgano ad un periodo ancora precedente all'anno 859, anno in cui gli arabi si impadronirono della città mutando il nome di "Henna" in "Castrum Hennae" (Castrogiovanni) e che, di conseguenza quel fantasioso pastore che un giorno colorò di giallo la cagliata con una manciata di zafferano potesse un sicano, un siculo, un greco o forse un romano che abitava l'Henna, il più antico dei cosiddetti "monti della lana".

      Notizie inconfutabili sul prodotto si individuano anche in un libro scritto tra il 1681 ed il 1682 da Francesco Maja dal titolo "Sicilia passeggiata" rimasto manoscritto fino al 1985. In sostanza Piacentinu è un formaggio pecorino, e di questo segue la tecnica di produzione, a cui viene aggiunto zafferano; risulta pertanto essere un formaggio più pregiato e viene in genere prodotto su ordinazione. E' un formaggio a pasta dura, semicotta, con crosta canestrata giallo oro, pasta da tenera a semivitrea, di colore giallo oro con presenza di una lieve occhiatura, aroma e sapore, arricchiti dall'aggiunta dello zafferano che acquistano carattere e tipicità in funzione del periodo di stagionatura; forma cilindrica di peso variabile da 6 a 14 Kg con scalzo 22-35 cm; si produce in più parti della provincia. Il particolare gusto di questo formaggio, dovuto allo zafferano, si apprezza maggiormente nei due diversi stadi maturazione: 
    • Semistagionato: media compresa tra 45 90 giorni a seconda grandezza forma, presenta un lievemente piccante aroma tipico dello zafferano; 
    • Stagionato: sia tavola che grattugia con maturazione superiore ai 4 mesi; tradizionale lo zafferano aggiunge una caratteristica aromatica decisa particolare. Questo abbinato ad alcuni primi piatti tipici, pasta brodo pollo ruspante, conferisce alla portata armonia e completezza di gusto unico. Come gustarlo: eccellenti caratteristiche prodotto ne hanno privilegiato, per non disperderne l'aroma, il consumo come formaggio da tavola; viene tuttavia utilizzato alternativamente al pecorino in tutte le pietanze della tradizione culinaria ennese. (in particolare la ricetta del "capretto abbuttunato"). 
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